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Tromba da vino

Questa è facile, talmente semplice da poter apparire banale. Eppure è proprio dietro quelle faccende che d’acchito possono sembrare colme di ovvietà che tendono a celarsi preziose informazioni. Lo stupore suscitato nell’aver appreso qualcosa che è sempre stato sotto l’occhio di tutti, senza essere mai veramente rivelato, è tale da lasciare un segno indelebile nella nostra memoria. La meraviglia aiuta a fissare il ricordo. Partiamo dal termine tromba inteso come cilindro cavo di varia natura e dimensione: la tromba dei pantaloni, la tromba dell’ascensore o delle scale, la tromba come strumento musicale. Poi, con il termine trombare, l’oggetto tromba si fece verbo. Ed il verbo si fece… carnale. Passiamo ora ad un mondo un po’ particolare ed apparentemente poco correlato alla tromba: quello dell’enologia. In questo campo, come in molti altri, la tecnologia ha reso desuete certe pratiche che erano ancora applicate ai tempi dei nostri nonni o persino dei nostri padri. Ovvio che se parliamo di “tramutare” il vino verremo capiti solo da quella ristretta cerchia di persone che ha avuto la fortuna di avere a che fare con antenati che conoscevano l’uva ed i suoi derivati liquidi.  Prendiamo un vocabolario della lingua italiana ed andiamo alla voce del verbo “tramutare” e togliamo il dubbio anche a quelli che son sempre stati astemi o non hanno mai visto una vigna nemmeno da lontano:  –  “Tramutare”: derivazione di mutare, col prefisso “tra”. Dal latino “ransmutare”, da cui l’italiano trasmutare. Trasportare, trasferire, mutare di posto (con quest’ultimo significato anche tramutare di luogo). “Quale per li seren tranquilli e puri Discorre ad ora ad or sùbito foco, … E pare stella che tramuti loco” (Dante); “acciò che niuna cosa gli potesse essere tocca o tramutata o scambiata” (Boccaccio) – Tramutare un liquido da un contenitore all’altro equivale a dire travasarlo. Ringraziamo la Treccani e spostiamo l’attenzione su di un detto che non crediamo abbia mai superato i confini di una certa zona della toscana: “Levare il vin dai fiaschi”. Navigando, navigando negli agitati mari della rete telematica scovo una spiegazione che ha la sua valenza: “Quando giunge l’ora di prendere una decisione, si dice che bisogna levare il vin da’ fiaschi. In questo modo si chiarisce definitivamente una questione, si risolve una faccenda, ci si libera da un impegno. Quando il vino sta nel fiasco, le sue qualità rimangono occulte all’olfatto e al palato; per decidere se è buono o meno, bisogna toglierlo dal fiasco e assaggiarlo, così ogni dubbio sarà sciolto.” Tutto molto bello ma la soluzione dell’assaggio non ci convince in pieno perchè ci porta un po’ fuori strada rispetto alla necessità, non tanto di testare il vino, quanto di … trombarlo. Senza soffermarsi sugli svariati problemi che si verificavano dalle mie parti, a chi il vino se lo produceva per conto proprio (parliamo di quel vino fatto in casa spesso imbevibile) e concentriamo la nostra attenzione solo sul fenomeno dell’intorbidamento che il succo d’uva fermentato poteva subire dentro al fiasco. Se il vino perdeva di limpidezza non c’erano dubbi: bisognava tramutarlo. Quindi si levava “fisicamente” il vin dai fiaschi per salvaguardarne la limpidezza, liberandolo dai sedimenti: un problema risolto definitivamente. Ma qual’era l’operazione adeguata per effettuare questo travaso? E quali gli strumenti necessari? Occorreva dotarsi di una cannuccia a forma di mezzaluna, di solito fornita di un occhiello adatto per porvi un dito atto a sostenere lo strumento durante il suo utilizzo. Questa cannuccia la si infilava nell’orifizio del fiasco eppoi, se non ricordo male, si aspirava l’aria dall’estremità della cannulla rimasta all’esterno dell’ampolla di vetro. In questo modo il liquido veniva travasato senza gorgoglii in modo che tutte le impurità rimanessero sul fondo del recipiente di partenza e non fossero portate nel nuovo contenitore. Tale operazione era detta “trombare il vino” o “trombare il fiasco”. Questo procedimento è ormai quasi del tutto abbandonato grazie alle nuove tecniche enologiche tanto che il verbo trombare riferito a tramutare il vino dai fiaschi è ritenuto un toscanismo e, per giunta, obsoleto . Come si è capito il procedimento di trombare il vino era detto così proprio per l’uso della “tromba da vino” (chiamato anche trombino) cioè quel tubo arcuato di plastica, gomma o di latta che veniva introdotto nel collo del fiasco. Ecco che finalmente l’ovvietà si rivela poichè, a questo punto, diventa fin troppo facile associare l’operazione di trombare il vino con l’atto sessuale. Basta ricordarsi del tròpo (già utilizzato per scioglire il dilemma della parola baggianata), cioè l’uso linguistico che trasferisce una parola dal significato suo proprio ad un altro figurato, ed il gioco è fatto.  Quindi il motivo per cui si usa la parola trombare quando si vuole far riferimeno  ad un rapporto sessuale è tutto da attribuire alla tromba da vino ed al “levare il vin dai fiaschi”. Ma oltre al trombino anche il fiasco, nel frattempo, dove è andato a finire?

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Bianca come…

Muore il 20 Ottobre una delle figure femminili più ricordate nella storia toscana ed in particolare di quella fiorentina. Una vita in “multicolor” tinteggiata di rosa, di giallo, di rosso e di nero. Per il colmo della sorte si chiama… Bianca ed a Firenze ci è “piovuta” per… buona ventura. Buonaventura o, ancor meglio, Bonaventuri è il cognome del gigolò che circuisce la graziosa e nobile ragazza, la mette incinta e la fà fuggire in altro… stato. Se la vicenda si fosse svolta un po’ più a sud di Italia si sarebbe parlato di classica “fuitina”, ma non son quelli i luoghi e nemmeno i tempi. Quel che è certo è che Pietro (Piero?) Bonaventuri non è appartenente alla famiglia Salviati (per la quale lavora) ed è forse più interessato alla dote che non alla ragazza di per sè. Parlo di ragazza e non di donna poichè, nel momento della fuga da Venezia, Bianca ha più o meno quindicianni anche se, considerando l’epoca, quindicianni son più che sufficienti per essere donna. Ai giorni nostri verrebbe a configurarsi il reato di sottrazione di minorenne (seppur consenziente) ma visto che stiamo parlando della seconda metà del ‘500 questo problema non si pone. Eppure di problemi e di misteri questa storia ne è piena. A partire da una quantità di gioielli (eredidati dalla madre) che Bianca avrebbe portato via con sè  al momento di allontanarsi dalla paterna casa Cappello. Oggi, se a Firenze dici Cappello, viene quantomeno in mente quel palazzo in Oltrarno la cui facciata mantiene ancora le pregevoli decorazioni che furono commissionate a Bernardino Poccetti quando già la Bianca orpiù non abitava al numero 25 di Via di Maggio. Ella vive quindi in Firenze ma in una piccola casupola verso Piazza San Marco e nascosta al popolo che conta finchè, non si sà come non si sà quando, il suo sguardo, resosi più aduto e probabilmente più consapevole, non incrocia quello di Francesco, primogenito di Cosimo. Stiamo parlando di Medici ma non di dottori, stiamo parlando dei Medici, del granducato mediceo in Toscana. Dopo il “Tumulto dei Ciompi” i Medici sono una di quelle famiglie che meglio è riuscita a colmare quel vuoto, fianziaramente parlando, provocato dalla crisi di metà del trecento e dalla cacciata dalla città della famiglia Alberti. Il successo del Banco dei Medici è talmente rapido da constentire di stabilire rapporti con la nobiltà ed i sovrani di tutta europa. Non stupisca quindi che Francesco sposi l’arciduchessa Giovanna D’Austria mentre resta, prima e dopo tale matrimonio, profondamente ed intimamente unito alla Bianca (senza dimenticare che anche lei è legata in matrimonio con Pietro). Francesco e  la Cappello si sposeranno nel 1579 solo dopo che entrambi sono rimasti vedovi.  Fine della descrizione dei matrimoni ed inizio di una lunga sequela di morti.  Giovanna muore, cadendo dalle scale, mentre è in attesa di un ottavo figlio. Il settimo era stato l’agogniato maschio (Filippo) che campa assai poco, poichè afflitto da vari mali. Pietro Banaventuri muore in un agguato, così come la sua amante dell’epoca, Alessandra Bonciani, detta Cassandra. Sul presunto, parziale o totale, coinvolgimento della famiglia Medici in questo doppio delitto ci dedicheremo chissà quando.  E’un periodo buono per morire in casa Medici: Isabella, per mano di Paolo Orsini ed Leonora de Toledo per conto di Pietro. Cosimo I nell’aprile del 1574, muore di morte naturale (strano), già afflitto nel fisico da un ictus ma in tempo per dare anche lui il suo piccolo scandalo con Camilla Martelli. Francesco muore 10 ore prima di Bianca, nella villa di Poggio a Caiano, dopo una agonia durata giorni. La strana morte dei due coniugi, a così breve distanza l’uno dall’altra, è stata nei secoli fonte di numerosi supposizioni e sospetti. Avvelenamento da arsenico? Intruglio medicinale creato dallo stesso Francesco? Una bella e naturale febbre terzana forse è la vera ed unica ragione a portarli via entrambi. Alla fine rimane solo Ferdinando, il fratello fatto cardinale (dopo la morte prematura dell’altro fratello Giovanni), colui che guiderà il granducato per circa un ventennio. Non ci stupiremmo se molte delle maldicenze su Bianca Cappello che sono arrivate fino ai giorni nostri siano nate (anche postume a Bianca stessa) grazie alle voci messe in giro dallo stesso Ferdinando con la complicità di altri componenti della famiglia medicea. Stiamo parlando della falsa maternità nei confronti di colui che sarebbe diventato Don Antonio de’ Medici; l’accusa di avvelenamento dell’unico figlio maschio di Giovanna d’Austria; il matrimonio con un Francesco maldisposto a tale passo; la sfrontataggine e la noncuranza di fronte al biasimo del popolo nei confronti di un rapporto amoroso così sfacciatamente clandestino; certi provvidimenti governativi ritenuti ingiusti (Fransceco fu uomo di scienza ma non buon amministratore)  e chi più ne ha, più ne metta.  E’ persino sospettata di stregoneria. Quel che è certo è che la Cappello (sposa Medici), già riabilitata in vita da parte dei veneziani, non dà mai grossa mostra di sè negli anni della sua permanenza a Palazzo Pitti (al quale predilige le tenute di campagna), evitando sfarzi, cerimonie in pompa magna e feste grandiose. L’unica colpa della “dama Bianca” che muore il 20 Ottobre 1587 è forse quella di essere riuscita a conquistare, grazie alla bellezza ed all’amore, un suo posto nella storia dei Medici senza che nelle sue vene scorresse sangue reale. Fu bianca o fu… nera? Ai posteri l’ardua sentenza.

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Cucina

Scafati ma cotti

Se la storiella precedente non dovesse essere stata di vostro gradimento  confidiamo in questa zuppa di fave, anche se non son di Baia và bene uguale, l’importante è che sian fresche quindi, visti i tempi, ci sarà da aspettare la prossima primavera. La zuppa è all’uso di Viterbo (siamo nella Tuscia) dove è chiamata “Scafata” perchè pare che da quelle parti le fave sian battezzate “scafi”. Qui ci tocca aprire una parentesona (grossa parentesi). Poichè scafato significa smaliziato, spigliato, non ci possiamo derimere dallo scoprire l’attinenza fra le fave e la scaltrezza tipica della persona disinvolta. Siccome scafare è anche liberare dal baccello, bisogna, per forza o per amore, affrontare il tema dell’allusione figurativa a cui il termine fava spesso ci rimanda. Ed ecco che, senza troppi voli pindarici, nel liberare il seme dal baccello è facile immaginare il glande liberato dal prepuzio. Nel graduale e progressivo scollamento del prepuzio dal  glande è altrettanto facile associare quel lasso di tempo in cui si termina di essere bambini, si entra nell’adolescenza, e si diviene piccoli adulti. Non si assume che quello sia il momento in cui si debba necessariamente diventare più disinvolti e spigliati, quindi più scafati? Ecco fatto il becco all’oca (e le corna al podestà). Anche per il termine scafato si ha quindi a che fare con la fava ma, in questo caso, come eccezione positiva. Prima di arrivare alla ricetta vera e propria è bene fare alcune altre considerazioni che potrebbero risultare utili nella realizzazione del piatto. Che la ricetta sia antica e, forse, improponibile ai giorni nostri, lo si può capire dal fatto che la ricetta originale richiederebbe di usare grasso di prosciutto, pancetta e cotiche. Siamo lontani dalla leggerezza necessaria per un turismo dell’anima; in questo caso saremmo più vicini ad una “immobilità del corpo”. Consapevoli che, deliziando il nostro palato, si ”mettono in moto” molteplici ricettori utili per viaggi un po’più… psichici, partiamo dal soffritto.  E che soffritto sia! Magari apportando, rispetto alla ricetta originale, alcune variazioni utili ad una realizzazione più in linea con i giorni nostri (di magra).  Fare un battuto ed oltre alla classica cipolla (abbondante) ed uno spicchio d’aglio, direi di aggiungere anche sedano e carota. Al posto della  mentuccia romana propongo la maggiorana, perchè in un soffritto non si dovrebbero mai mettere delle erbe tenere come prezzemolo o basilico. Quando si scrive battuto si intende colpito e quindi non frullato nel mixer ma prima tagliato a coltello eppoi sminuzzato con la mezzaluna. Le dimensioni sono importanti. Quanto deve essere trito un battuto? Il giusto. Giusto è quando un po’ più grosso è troppo grosso e un po’ più piccolo è troppo piccolo. La verità è che molto dipende dall’utilizzo. Per un riso occore un soffritto i cui pezzettini non siano più grandi del chicco di riso, per un sugo a coltello gli ortaggi  dovrebbero competere con le dimensioni dei dadolini di carne.  Mettiamo un tegame capiente sul fuoco e facciamo scaldare un filo d’olio extra vergine di oliva. Fuoco medio-basso e poco olio. Dobbiamo tenere di conto che il soffritto non deve bruciare ma ammansire. Appena si sente un po’ di sfrigolio bisogna sfumare aggiungendo del liquido. Meglio brodo vegetale, oppure vino o semplicemente acqua, magari non fredda. Quando il soffritto è appassito aggiungete le fave sbucciate e ancora brodo caldo e fate cuocere per una decina di minuti. A questo punto si mettono le foglie di lattuga, pomodoro pelato e le cotiche di maiale, ovvero la cotenna, cioè la pèlle del maiale che deve essere precedentemente fiammeggiata (per eliminare la peluria residua), sbollentata per qualche minuto in acqua leggermente salata (per ammorbidirla), sgocciolata e tagliata a striscioline. La cotenna era un elemento tipico della cucina contadina di quando del maiale… non si buttava via niente; oggi si butta. Oh, se si butta! Forse troppo. Ma se togliessimo anche la pelle del maiale dalla ricetta allora della “scafata” originale non rimarebbe più niente. Quindi cuocere il tutto a fuoco basso per un ora e mezza circa, fino a cottura  completa delle fave via via aggiungendo, se necessario, altro brodo. A cottura ultimata versate la zuppa sul pane raffermo e lasciate un po’ raffreddare prima di servire. Le dosi non le metto perchè non è il caso. Ognuno deve regolare gli ingredienti come meglio crede in base alla sua esperienza. Le fave sono buone ma le cicerchie mica son da buttare. La cicerchia è nota anche con il nome di veccia bianca e proprio Bianca sarà la protagonista del prossimo articolo.

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Questione di… fave

Tutto è iniziato perchè, come si sà, le opinioni son belle quando sono varie. Così all’idea di un blog come Stendhalmania qualche nostro amico è parso entusiasta mentre qualche altro ha storto un po’ il naso. C’è pure chi è arrivato a dirci che si tratta di una vera e propria “baggianata”. Invece di dargli subito torto la risposta a caldo è stata: “Può anche darsi… Ma tu sai perchè si dice baggianata?”. La motivazione è semplice ma non immediata, quindi è stato  deciso di metterla per scritto fingendo di rivolgersi proprio a quell’amico che ha liquidato questo blog con un po’ troppa sufficienza (speriamo).

Caro mio, non è affatto strano ma la faccenda si spiega con una fava, o più’ di una anche se, in questo secondo caso, dovremmo parlare di… fave. La fava era preziosissimo legume alli tempi delli antichi (parlo dei latini meglio noti come Romani). Le fave arrivavano sui mercati dei Romani da piu’ parti ma molto note erano quelle di Baia. Per giungere a Baia – frazione di Bacoli – basta non allontanarsi troppo dai Campi Flegrei. Ma non importa che tu vada fin la’ visto che, come gia’ detto, era la fava stessa a spostarsi presso i mercati dell’impero. Quali fossero i mezzi di spostamento della fava non sapremmo dire ma l’argomento non rientra nell’oggetto del contendere. L’importante è che la fava di Baia abbia semi molto grossi, non molto saporiti, ma di ragguardevoli dimensioni. Ora, siccome l’occhio ha sempre voluto la sua parte, baccelli del genere richiamavano indubbiamente l’interesse dell’acquirente. Anche per questo motivo  il venditore ci teneva a far sapere la provenienza della merce esposta sui suoi banchi e quindi si metteva a gridare: “Fava di Baia, venite gente, accattatevi la… Baiana”). Naturalmente lui gridava in latino (anche se da certe espressioni si poteva evincere la sua estrazione partenopea) ma noi abbiamo tradotto simultaneamente in italiano per garantire uniformita’ nel linguaggio e per mostrare il livello di erudizione (“Chi si loda s’imbroda” avrebbe sentenziato il nonno, ma anche questa è un altra storia). Torniamo al punto. Siamo quindi giunti alla parola Baiana per indicare la Fava di Baia e fin qui niente di eccezionale perche’ ci sono tantissimi prodotti che devono il loro nome alla zona di provenienza, per esempio… Va beh adesso, così su due piedi, non ce ne sovvengono però siam certi che ci sono. Dobbiamo però aggiungere una postilla perchè è carina e non proprio possibile tralasciarla. Pensa alla parola Baiana ed alla radice inglese Beans e fai pure una pausa di riflessione. Nel frattempo ritorniamo a Baiana, noi ce la figuriamo lessicalmente trasformata nel tempo prima in Bajana eppoi in Bagiana, tanto che Francesco Redi (mica l’ultimo arrivato) su quest’ultimo termine scriveva: “Così chiamano gli aretini le fave fresche, sgranate, dal latino Baiana, che trovasi in Apicio…”. Mentre la parola si trasformava anche l’importanza delle fave, nella alimentazione e quindi nel contesto sociale, cambiava. Infatti il termine Fava (specie in Toscana) o Baggiana cominciò ad essere utilizzato anche come riferimento a persona semplice, vana, scipita, di scarsa intelligenza, di poco valore e, di soverchio, credulone. Che i contadini milanesi fossero soprannominati, nel bergamasco soggetto a Venezia, Baggian (Baggiani) ce lo riporta persino il Manzoni nei Promessi Sposi: “figliuolo mio, se tu non sei disposto a succiarti del baggiano a tutto pasto, non far conto di poter viver qui”. Ma pure quest’ultima è osservazione non rientra in pieno nel contesto della questione. Per passare da baggiano a baggianata, cioè da fava a favata, bisogna andar per tròpo.  Oddio, che abbiamo detto di male? Il tròpo non è pericoloso e non deve farti paura, è una figura retorica di carattere semantico. Vale la pena comunque ricordare che in alcune regioni di Italia la baggianata è pure una zuppa di fave  (una favata appunto!).

Ma grazie al tròpo (uso linguistico che trasferisce una parola dal significato suo proprio ad un altro figurato) Baggianata diviene sinonimo di errore. Per farti capir meglio facciamo l’esempio concreto. Siccome il baggiano è un inetto, uno sciocco, va da sè che una persona del genere sia soggetta a commettere sbagli, per cui il sostantivo femminile baggianata và ad assumere il significato di cosa sbagliata , di sciocchezza.

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Prefazione

Turismo dell’anima

Questo blog è rivolto a far conoscere l’Italia a chi in Italia non è. Questo blog è rivolto a tutti coloro che nelle scoperte di viaggio riescono a capire anche meglio loro stessi. Per questo si parla di turismo dell’anima. Questo blog è rivolto a tutti i coloro che non credono di aver niente a che fare con un turismo dell’anima. Questo blog è rivolto a tutti coloro… Questo blog è rivolto a tutti!

Nel 1817 lo scrittore francese Stendhal (Marie-Henry Beyle), in visita alla Basilica di Santa Croce a Firenze, scrive: “Là, seduto su un gradino di un inginocchiatoio, la testa abbandonata sul pulpito, per poter guardare il soffitto, le Sibille del Volterrano mi hanno dato forse il piacere più vivo che mai mi abbia fatto la pittura. Ero già in una sorta di estasi, per l’idea di essere a Firenze, e la vicinanza dei grandi uomini di cui avevo visto le tombe. Ero arrivato a quel punto di emozione dove si incontrano le sensazioni celestiali date dalle belle arti e i sentimenti appassionati. Uscendo da Santa Croce, avevo una pulsazione di cuore, quelli che a Berlino chiamano nervi: la vita in me era esaurita, camminavo col timore di cadere”.

Il turismo dell’anima fonde il mondo circostante con l’io più intimo. La nostra speranza e’ quella che, con i nostri semplici racconti, si riesca a far incuriosire a tal punto da non poter fare a meno di visitare l’Italia accompagnati dalla piacevole sensazione di conoscerla gia’ un po’ e, di conseguenza, di avere acquisito una maggiore consapevolezza interiore.

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