Cucina

Scafati ma cotti

Se la storiella precedente non dovesse essere stata di vostro gradimento  confidiamo in questa zuppa di fave, anche se non son di Baia và bene uguale, l’importante è che sian fresche quindi, visti i tempi, ci sarà da aspettare la prossima primavera. La zuppa è all’uso di Viterbo (siamo nella Tuscia) dove è chiamata “Scafata” perchè pare che da quelle parti le fave sian battezzate “scafi”. Qui ci tocca aprire una parentesona (grossa parentesi). Poichè scafato significa smaliziato, spigliato, non ci possiamo derimere dallo scoprire l’attinenza fra le fave e la scaltrezza tipica della persona disinvolta. Siccome scafare è anche liberare dal baccello, bisogna, per forza o per amore, affrontare il tema dell’allusione figurativa a cui il termine fava spesso ci rimanda. Ed ecco che, senza troppi voli pindarici, nel liberare il seme dal baccello è facile immaginare il glande liberato dal prepuzio. Nel graduale e progressivo scollamento del prepuzio dal  glande è altrettanto facile associare quel lasso di tempo in cui si termina di essere bambini, si entra nell’adolescenza, e si diviene piccoli adulti. Non si assume che quello sia il momento in cui si debba necessariamente diventare più disinvolti e spigliati, quindi più scafati? Ecco fatto il becco all’oca (e le corna al podestà). Anche per il termine scafato si ha quindi a che fare con la fava ma, in questo caso, come eccezione positiva. Prima di arrivare alla ricetta vera e propria è bene fare alcune altre considerazioni che potrebbero risultare utili nella realizzazione del piatto. Che la ricetta sia antica e, forse, improponibile ai giorni nostri, lo si può capire dal fatto che la ricetta originale richiederebbe di usare grasso di prosciutto, pancetta e cotiche. Siamo lontani dalla leggerezza necessaria per un turismo dell’anima; in questo caso saremmo più vicini ad una “immobilità del corpo”. Consapevoli che, deliziando il nostro palato, si ”mettono in moto” molteplici ricettori utili per viaggi un po’più… psichici, partiamo dal soffritto.  E che soffritto sia! Magari apportando, rispetto alla ricetta originale, alcune variazioni utili ad una realizzazione più in linea con i giorni nostri (di magra).  Fare un battuto ed oltre alla classica cipolla (abbondante) ed uno spicchio d’aglio, direi di aggiungere anche sedano e carota. Al posto della  mentuccia romana propongo la maggiorana, perchè in un soffritto non si dovrebbero mai mettere delle erbe tenere come prezzemolo o basilico. Quando si scrive battuto si intende colpito e quindi non frullato nel mixer ma prima tagliato a coltello eppoi sminuzzato con la mezzaluna. Le dimensioni sono importanti. Quanto deve essere trito un battuto? Il giusto. Giusto è quando un po’ più grosso è troppo grosso e un po’ più piccolo è troppo piccolo. La verità è che molto dipende dall’utilizzo. Per un riso occore un soffritto i cui pezzettini non siano più grandi del chicco di riso, per un sugo a coltello gli ortaggi  dovrebbero competere con le dimensioni dei dadolini di carne.  Mettiamo un tegame capiente sul fuoco e facciamo scaldare un filo d’olio extra vergine di oliva. Fuoco medio-basso e poco olio. Dobbiamo tenere di conto che il soffritto non deve bruciare ma ammansire. Appena si sente un po’ di sfrigolio bisogna sfumare aggiungendo del liquido. Meglio brodo vegetale, oppure vino o semplicemente acqua, magari non fredda. Quando il soffritto è appassito aggiungete le fave sbucciate e ancora brodo caldo e fate cuocere per una decina di minuti. A questo punto si mettono le foglie di lattuga, pomodoro pelato e le cotiche di maiale, ovvero la cotenna, cioè la pèlle del maiale che deve essere precedentemente fiammeggiata (per eliminare la peluria residua), sbollentata per qualche minuto in acqua leggermente salata (per ammorbidirla), sgocciolata e tagliata a striscioline. La cotenna era un elemento tipico della cucina contadina di quando del maiale… non si buttava via niente; oggi si butta. Oh, se si butta! Forse troppo. Ma se togliessimo anche la pelle del maiale dalla ricetta allora della “scafata” originale non rimarebbe più niente. Quindi cuocere il tutto a fuoco basso per un ora e mezza circa, fino a cottura  completa delle fave via via aggiungendo, se necessario, altro brodo. A cottura ultimata versate la zuppa sul pane raffermo e lasciate un po’ raffreddare prima di servire. Le dosi non le metto perchè non è il caso. Ognuno deve regolare gli ingredienti come meglio crede in base alla sua esperienza. Le fave sono buone ma le cicerchie mica son da buttare. La cicerchia è nota anche con il nome di veccia bianca e proprio Bianca sarà la protagonista del prossimo articolo.

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